Apologia di Piero Fassino.

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«Il “momento del coglione”, prima o poi, arriva per tutti. Compatiamoci a vicenda! Signori della corte, ho finito».

Questo è tutto ciò che avrei da dire, se fossi il difensore di un immaginario Piero Fassino imputato per l’ormai famoso furto di un profumo al duty free di Fiumicino. In realtà non ci sarà bisogno di una simile orazion picciola, perché nell’improbabilissimo caso che sia rinviato a giudizio sarei davvero stupito se proprio lui non trovasse un giudice pronto, mal che vada, a far valere la non punibilità per “particolare tenuità del fatto” ex art. 131 bis C.P.

Se mi permetto di pronunciare qui la mia minima arringa è solo perché il fatterello di cronaca di cui il deputato del PD si è reso protagonista potrebbe essere edificante per tutti. Ciò che rende insopportabili, letteralmente insopportabili (almeno a me) quasi tutti quelli della sua parrocchia (e la intendo non solo in senso politico, ma più ampiamente in senso “culturale“ e perfino “antropologico”) è l’habitus spocchioso, la compunzione virtuosa e vagamente ricattatoria, il sussiego permanente che li impregna e che trasuda disprezzo, pur se educatamente velato, per noi mortali, massa damnata. Tanto mi ripugna quella postura intellettuale e morale che, al confronto, perfino la balordaggine sbracata di certi altri che sono sulla piazza finisce per ispirarmi, non dico simpatia, ma almeno indulgenza. Tutte le settimane i giornali dei “buoni”, le loro trasmissioni televisive, i loro siti in rete, gli esponenti del loro “partito” sulla scena pubblica additano, in un modo o nell’altro, un puzzone da mettere alla gogna (quando non da inquisire addirittura): questo ha bestemmiato (non contro Dio, figuriamoci, ma contro i dogmi del pensiero corretto); quell’altro è stato beccato mentre faceva “una cosa orribile” (e tutto può essere “orribile”, secondo loro e a seconda dei casi: perfino mettersi le dita nel naso, tanto per dire); quell’altro non ha fatto né detto niente, ma proprio qui sta la sua colpa … Così di continuo. E ogni volta, secondo loro, noi dovremmo indignarci, se no siamo brutte persone. (Io per legittima difesa, ho deciso di non indignarmi mai, per principio, quando si indignano loro).

La mia parrocchia è un’altra. Sulla porta c’è scritto in grande: «Dio ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia». E vicino, scritto in piccolo da me: «Il momento del coglione arriva per tutti». Anche se nel caso specifico è quasi impossibile che io rubi un profumo al duty free di Fiumicino (non metto piede in un aeroporto da vent’anni e se mai ci ritornassi so che eviterei come la peste gli esercizi commerciali che vi si trovano), sono certo che all’occasione potrei fare di molto peggio. Per questo dico spesso il Padre Nostro, e per conto mio lo dico alla vecchia maniera: «non ci indurre in tentazione». Per questo mi sento di dire con tutta cordialità: caro Fassino, venga da noi, la porta è sempre aperta. Mon semblable, mon frère!

Una domanda, reale, ai sostenitori del “diritto di aborto” (e, per conoscenza, a tutte le “persone civili”).

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Ci sono oggi, in pieno XXI secolo, due categorie di persone, assai numerose e temo in crescita, la cui esistenza dovrebbe fare problema a chi eventualmente credesse ancora all’idea di progresso, e in ogni caso deve preoccupare chunque abbia a cuore le sorti dell’umanità. Una è formata da “quelli del grumo di cellule” e l’altra dai sostenitori del diritto di aborto, oggi sulla via di essere eretto a principio costituzionale.

Con i primi non si può, propriamente, interloquire. Essi infatti dicono, in sostanza, che poiché l’embrione non sembra un essere umano non lo è. Ora, non è chi non veda che questo tipo di procedimento mentale (ho difficoltà a chiamarlo pensiero) può essere del bruto o del selvaggio, ma non appartiene all’uomo civile. La terra non sembra affatto uno sferoide, eppure lo è: l’uomo dell’età della pietra non lo sa, l’infante non lo sa, il pazzo lo nega, ma l’uomo civile di oggi lo sa e non può disconoscerlo. E la terra (che sembra piatta) è piena di cose che non sembrano eppure sono (fino alla bottiglia di candeggina, che c’è in tutte le case e non sembra pericolosa a berla, eppure lo è). C’è un livello minimo di conoscenza della realtà, che cresce con l’aumento dello scibile umano e che fa parte integrante del concetto di civiltà, diventando perciò, in questo senso, obbligatorio. Nell’età della pietra (e anche molto dopo, se è per questo) si poteva “civilmente” dubitare che fosse un essere umano ciò che non sembrava esserlo, ma oggi no. Che il prodotto del concepimento sia, sin dall’inizio della sua vita, un individuo appartenente alla specie umana il quale intrattiene da subito una complessa relazione, a livello biochimico, con un altro soggetto, l’individuo-madre, che ne sostiene la vita e lo sviluppo, è assolutamente incontrovertibile. Fine del discorso. Pertanto chiunque dica ancora grumo di cellule si mette fuori dalla civiltà umana, dichiara di essere un bruto o un selvaggio. Come uomo devoto al diritto di libertà di manifestazione (rivendicato qui anche l’altro giorno: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2024/04/22/liberta-ma-per-tutti-non-solo-per-canfora-e-i-suoi-amici/) voglio che sia assolutamente tutelata e garantita la sua libertà di dire quella bestialità in tutti i modi possibili e immaginabili; come cristiano riconosco in lui una creatura fatta ad immagine e somiglianza di Dio e lo amo per questo; ma come cittadino sono molto preoccupato per il pericolo che rappresenta per la nostra civiltà. L’imbecillità, infatti, è tossica e contagiosa, quindi ogni volta che qualcuno dice “grumo di cellule” a un essere umano occorre quantomeno un “atto di riparazione intellettuale” per disinquinare il pianeta.

A “quelli del grumo di cellule”, quindi, non si può domandare niente, ma solo ingiungere di studiare. A questo proposito, per inciso, faccio notare che in una società civile questo è un obbligo. È vero che, a rigore, si tratta di una limitazione della libertà, ma deriva da una necessità imposta dall’esistenza stessa della società, che per andare avanti ha bisogno che i suoi membri abbiano un livello minimo di istruzione. Si dimentica spesso che per la nostra Costituzione, ad esempio, «l’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita» (art. 33 comma 2). Quello all’istruzione, dunque, non è solo un diritto ma anche un dovere a cui non si può opporre un inesistente “diritto all’analfabetismo”. Passiamo però alla seconda categoria, quella di coloro che sostengono il diritto costituzionale all’aborto, inteso ovviamente (come è obbligatorio fare tra persone civili) come uccisione di un essere umano.

A costoro sì che mi sento in dovere di rivolgere una domanda, e vorrei davvero che fosse presa per quello che è, cioè una domanda reale, non una provocazione da respingere con sdegno e inscenando uno scandalo violento e beffardo come solitamente si fa. (Il che è un modo facile, intellettualmente miserabile e moralmente squalificante, di rifiutarsi di affrontare un problema reale). Se si vuole sostenere che non è una vera domanda ma una reductio ad absurdum, occorre spiegare perché lo è, e dimostrarlo. La questione che pongo ai sostenitori del diritto di aborto è molto semplice, anche se si articola in due parti. La prima è: siete voi favorevoli o contrari al diritto di infanticidio? Se rispondete che siete contrari, vi chiedo: su che base riconoscete all’infante un diritto alla vita che negate al feto? Mi pare evidente che, ceteris paribus, la risposta deve vertere su una differenza sostanziale tra l’uno e l’altro individuo. Qual è, esattamente? Faccio notare che porre l’aborto come diritto soggettivo, anzi come diritto costituzionalmente garantito, implica sul piano teorico che eventuali limiti al suo esercizio eventualmente posti dalla legge (del tipo: fino al sesto mese e non oltre, o simili) sono sempre e comunque secondari rispetto al principio, che è quello del diritto di uccidere degli esseri umani. Quindi la domanda va posta con riferimento non solo all’embrione nei primi stadi dello sviluppo (quello che agli incivili “non smbra un essere umano”) bensì anche con riferimento al feto sino ad un momento prima dell’espulsione dal corpo della madre. Non è un caso, infatti, che il piano inclinato lungo il quale le legislazioni più “avanzate” sono già scivolate sia quello. Dunque: qual è la ragione sostanziale per cui il feto al nono mese non ha diritto alla vita e il neonato sì? Aspetto la risposta.

Se invece mi dite che sì, in effetti siete favorevoli anche al diritto di infanticidio, prima mi congratulo con voi per la lucidità mentale e per l’onestà intellettuale che dimostrate e vi assicuro che, come sopra, difenderò il vostro diritto di propugnare questa tesi; poi però darò l’allarme e cercherò di starvi il più possibile alla larga perché siete delle persone molto pericolose.

Per come la vedo io solo due posizioni sono coerenti e degne delle “persone civili”: una afferma il diritto alla vita di tutti gli esseri umani (pur rendendosi conto che il mondo non funziona affatto così e che comunque anche tale diritto incontra un limite nel diritto alla legittima difesa); l’altra afferma il diritto alla vita solo di chi se lo guadagna, cioè di chi è in grado di difendersi. (Dunque in realtà afferma non un diritto, ma un dato di fatto). Le persone che vogliono questo sono civili e malvagie; quelle che vogliono il diritto alla vita per tutti sono civili e non dico che siano buone, perché come diceva Gesù: “uno solo è buono e voi siete tutti cattivi”, ma si sforzano di essere decenti. Gli altri non capiscono neppure di che cosa si sta parlando.

(NB: questo è un blog di nicchia e i suoi pochi lettori sono mediamente molto intelligenti. Quindi non ci sarebbe bisogno di far notare che ho accuratamente evitato di chiamare in causa il concetto di persona, che aprirebbe un dibattito complesso: per quello che sto sostenendo mi basta e avanza l’inconfutabile definizione di individuo appartenente alla specie umana).

Paolo parla agli Ebrei (di allora e di oggi). [Atti degli Apostoli 43].

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Registrata con gioia la conversione del proconsole Sergio Paolo e iscritto il suo nome nella nostra preziosa rubrica dei “primi santi” (i nomi sono importanti, e scommetto che questo “san” Sergio Paolo, che «quando vide l’accaduto credette, colpito dalla dottrina del Signore», non lo invoca mai nessuno), seguiamo «il gruppo di Paolo (οἱ περὶ Παῦλον)» nel trasferimento da Pafo (isola di Cipro) a Perge di Panfilia e subito dopo ad Antiochia di Pisidia. Vuol dire un breve viaggio per mare, fino ad un porto sulla costa meridionale dell’odierna Turchia (siamo nelle vicinanze di Antalya, oggi divenuta ahimé una nota località turistica), poi una scarpinata di una decina di giorni verso l’interno, fino agli oltre mille metri di altitudine a cui si trova Antiochia di Pisidia. Perché andare proprio lassù? Abbiamo testimonianze epigrafiche da quella regione relative a personaggi della famiglia dei Sergii Paullii, il che rende estremamente verosimile che sia stato proprio il neoconvertito proconsole di Cipro a indirizzare Paolo e i suoi verso quella regione, dove poteva contare su conoscenze e appoggi. Ancora una volta tocchiamo con mano la preminente incidenza delle “circostanze” nel suggerire le modalità concrete di svolgimento dell’impresa missionaria paolina, che non segue un “piano pastorale” studiato a tavolino, ma criteri molto più pragmatici e semplici: sono andati a Cipro perché Barnaba era di lì e aveva delle amicizie; ora vanno in Pisidia probabilmente perché Sergio Paolo gli ha fornito delle buone raccomandazioni. Teologico è il senso di ciò che fanno; umano e contingente il modo in cui lo fanno (ma per il cristiano, in fondo, è teologico anche questo, perché “non muove foglia che Dio non voglia”, quindi anche le circostanze sono un segno).

Prima di andare ad Antiochia, però, recepiamo con la dovuta attenzione un’altra di quelle notizie che Luca snocciola con nonchalance, come se fossero dettagli insignificanti, mentre al contrario sono piene di implicazioni rilevanti: «Giovanni invece, essendosi separato da loro, ritornò a Gerusalemme» (13, 13b). Qui c’è sotto qualcosa: Paolo deve essersela presa molto per questa decisione, e apprenderemo da 15, 36-40 che proprio Giovanni Marco sarà la causa di un litigio tra Paolo e Barnaba così violento da portare alla definitiva separazione dei due missionari. Perché Marco, una volta giunti a Perge, si rifiuta di accompagnare «quelli attorno a Paolo» (tra cui il suo mentore Barnaba) e preferisce tornare, non ad Antiochia di Siria cioè la base da cui erano partiti, ma alla “sua” Gerusalemme, da cui era stato inizialmente prelevato proprio per accompagnare e aiutare i due apostoli missionari? Non lo sappiamo con certezza, però possiamo fare delle congetture, la più ragionevole delle quali mi pare che sia che egli non condividesse la scelta di “appoggiarsi”, per così dire, al circuito di conoscenze e relazioni di Sergio Paolo, nel timore di un ulteriore spostamento verso quel milieu pagano “timorato di Dio” al quale, dal caso Cornelio in poi, a giudizio di molti, soprattutto a Gerusalmme, la chiesa stava rischiando di dare troppo credito, aprendo loro le porte in misura eccessiva. Torneremo sul tema, ma intanto prego i lettori di segnarsi questa osservazione di carattere generale: l’idea “ingenua” che noi molto spesso abbiamo della chiesa primitiva è, per così dire, molto paolina, nel senso che la personalità, l’opera e il pensiero di Paolo ci appaiono assolutamente dominanti, un po’ come il corpus delle lettere sue o a lui attribuite e la parte paolina di Atti occupano un posto centrale nel Nuovo Testamento. La realtà invece è che, senza togliere nemmeno un centimetro alla gigantesca statura di Paolo e nemmeno un grammo al peso che ha avuto nella storia del cristianesimo, la chiesa antica conobbe anche un antipaolinismo altrettanto forte, benché molto meno documentato e quindi assai meno percepibile per noi oggi. Abbiamo già avuto modo di notare che una caratteristica tipica di Saulo prima e di Paolo poi è che dovunque vada la sua presenza dà fastidio: provoca contrasti violenti, dentro e fuori la comunità, tanto che l’apostolo deve essere messo in salvo, mandato altrove, in qualche modo neutralizzato. Tutto questo ci fa pensare, tornando al nostro versetto, che anche la defezione di Giovanni Marco non sia banale, ma nasconda un contrasto profondo.

Questo non-detto, che noi facciamo fatica a cogliere ma che doveva essere molto più comprensibile ai lettori contemporanei, è significativo anche per inquadrare correttamente tutto l’episodio che si svolge ad Antiochia di Pisidia (13, 14-52), interamente dedicato ai giudei e in buona parte ambientato all’interno di una sinagoga. Luca vuole sottolineare che, a dispetto dei timori di una deriva filopagana della missione di Paolo, condivisi da molti nella chiesa primitiva, essa si indirizza principalmente e prioritariamente ai giudei della diaspora: solo il rifiuto del messaggio cristiano da parte loro, unito all’interesse e all’accoglienza mostrata da alcuni pagani, spinge “l’apostolo delle genti” a rivolgersi, sempre in seconda battuta, anche a questi ultimi. È questo ciò che accade ad Antiochia di Pisidia, secondo uno schema che si ripeterà regolarmente in tutte le altre città visitate da Paolo.

Riassumiamo la vicenda: Paolo e i suoi, giunti ad Antiochia, si recano «nella sinagoga nel giorno di sabato» (13, 14) per partecipare al culto, da buoni ebrei osservanti. Dopo le letture «della Legge e dei Profeti», i «capi della sinagoga», seguendo un’usanza di cortesia, invitano i nuovi venuti a dire «una parola di esortazione per il popolo (λόγος παρακλήσεως πρὸς τὸ λαόν)» (13, 15). A questo punto Paolo si alza e fa molto di più di quanto gli è stato proposto. Invece di una semplice “parola di esortazione”, il suo sarà l’annuncio di una «parola di salvezza (λόγος τῆς σωτηρίας)» (13, 26). Attenzione: qui riscontriamo un tratto tipico dell’operatività del “cristianesimo critico”, nell’attitudine a entrare nei sistemi e dall’interno metterli in crisi facendone il “giusto uso” (chresis), cioè risignificandoli. Quello che Paolo tiene, infatti, non è un semplice saluto e nemmeno una riflessione sui passi della Scrittura appena letti, ma il suo primo grande discorso riportato negli Atti, nel quale reinterpreta l’intera storia del giudaismo mostrando che essa ha il suo compimento e il suo senso in Gesù Cristo (13, 16-41). Questo discorso andrebbe studiato in stretta correlazione con tre modelli che lo precedono e che il lettore di Luca-Atti ha in mente: prima di tutto il discorso inaugurale della predicazione pubblica di Gesù nella sinagoga di Nazaret (Lc 4, 16-30), poi il kerygma petrino che inaugura la predicazione della Chiesa (Atti 2, 14-40), infine il discorso martiriale di Stefano (Atti 7, 2-53). Non possiamo qui farne l’analisi dettagliata che meriterebbe, perciò mi limito a far notare poche cose fondamentali. Ricordo, in premessa, che vale anche per questo ciò che abbiamo detto degli altri discorsi di Atti, cioè che non sono ovviamente “registrazioni stenografiche” di discorsi effettivemente pronunciati in quella forma, ma piuttosto rielaborazioni di informazioni di cui Luca poteva disporre, svolte secondo il criterio della verosimiglianza.

La prima osservazione è che Paolo si inserisce, come abbiamo detto, in un’usanza sinagogale del tutto tradizionale e consolidata, tuttavia il suo discorso esce dai normali confini di un midrash, cioè di un commento attualizzante riferito a uno specifico testo biblico (a cui certi esegeti vorrebbero ricondurlo), perché si presenta come un’interpretazione complessiva della storia del rapporto tra Dio e il suo popolo. La seconda annotazione si riferisce al fatto che Paolo esordisce rivolgendosi agli «uomini israeliti e [ai] timorati di Dio (οἱ φοβούμενοι τὸν θεόν)» (13, 16b). I “timorati di Dio”, lo ricordiamo, sono dei pagani simpatizzanti per il giudaismo che però non fanno parte del popolo eletto. A questa categoria apparteneva il centurione Cornelio. Difficile dire se la loro presenza nella sinagoga di Antiochia di Pisidia sia una finzione letteraria di Luca o se corrisponda effettivamente ad una pratica in uso: in ogni caso il particolare è importante perché precisa il senso di ciò che abbiamo rilevato sopra, cioè che la missione paolina si indirizza primariamente ai giudei: questo è vero, ma è vero anche che, avendo assimilato la “svolta petrina” collegata al battesimo di Cornelio, essa comprende tra i propri destinatari anche i timorati di Dio.

Il sommario di storia d’Israele che segue (13, 17-25) corre sveltamente dalla scelta iniziale «dei padri» (senza neanche nominare Abramo e Mosè) fino a Davide e poi al suo discendente Gesù, preannunciato da Giovanni il Battista e mandato da Dio a Israele come «salvatore (σωτήρ)» (13, 23). Gesù, dunque, è il culmine della storia della salvezza: questa affermazione forte, implicata dal sommario, viene poi spiegata e argomentata nella seconda parte del discorso (13, 26-41) che ricostruisce le vicende della condanna a morte e della resurrezione di Gesù (13, 27-31), secondo lo schema di contrasto tra l’atteggiamento di rifiuto dei capi del popolo e la volontà di Dio che abbiamo già visto nei discorsi di Pietro e di Stefano. Si noti che Paolo “appoggia” l’affermazione della resurrezione di Gesù sulla testimonianza oculare di «quelli che dalla Galilea erano saliti con lui a Gerusalemme» (13, 31), in perfetta aderenza alla modalità del kerygma petrino e senza alcun riferimento alla propria esperienza personale di incontro con il Risorto nella visione di Damasco. L’annuncio della resurrezione viene poi corroborato con una serie di citazioni volte a dimostrare che in essa si realizza il compimento delle Scritture (13, 32-37). La perorazione finale (13, 38-41) si concentra sul tema – squisitamente paolino e che finora non era comparso in Atti – della remissione dei peccati che si ottiene solo grazie alla fede in Gesù Cristo e non «mediante la legge di Mosè» (13, 39).

Il discorso paolino agli ebrei, così come Luca ce lo presenta con l’esemplare di Antiochia di Pisidia, è abilissimo nel presentare l’annuncio cristiano come “un radicale cambiamento nella continuità” della fede di Israele. C’è una rottura, un andare oltre la Torah, ma questo salto non è che il frutto dell’ultimo, supremo intervento di Dio nella storia del popolo, che si collega strettamente a tutti quelli che l’hanno preceduto. La cosa più interessante da notare in questo episodio, tuttavia, a mio avviso è un’altra: la prima reazione dei giudei di Antiochia all’inaspettato e “innovativo” annuncio di Paolo, che è sorprendentemente positiva. «Mentre uscivano [dalla sinagoga] li pregavano (παρεκάλουν) che queste parole fossero dette loro [anche] il sabato seguente. Sciolta poi la riunione della sinagoga, molti dei giudei e dei proseliti adoratori [di Dio] seguirono Paolo e Barnaba i quali, discutendo con loro (προσλαλοῦντες αὐτοῖς) li persuadevano a permanere (προσμένειν) nella grazia di Dio» (13, 42-43). Dunque lo sconvolgente annuncio che Gesù di Nazaret è il Messia, condannato a morte per colpa delle autorità giudaiche ma risorto per volontà del Padre, e che solo la fede in Lui, più che l’osservanza della Legge, porta la salvezza ai figli della stirpe di Abramo e ai timorati di Dio (cfr. 13, 26), nei giudei di Antiochia non suscita un immediato scandalo e una reazione violenta, bensì un interesse molto vivo, come il verbo parakaleo, che qui vuol dire “chiedere con una certa insistenza, sollecitare”, lascia intendere. Questa è la reazione generale dell’assemblea; poi c’è una parte di essa che non si limita alla richiesta di continuare ad ascoltare in sinagoga il nuovo insegnamento di Paolo e Barnaba, ma «li segue» in conversazioni informali che si svolgono presumibilmente nei giorni immediatamente successivi a quel primo incontro. Il sabato seguente, però, si verifica un altro repentino e radicale cambiamento della situazione, ed è estremamente interessante per noi analizzare da vicino che cosa lo provoca, secondo Luca: «Venuto il sabato, quasi tutta la città (σχεδὸν πᾶσα ἡ πόλις) si era radunata per ascoltare la parola del Signore. Ma i giudei, vedendo le folle (ἰδόντες δὲ οἱ Ἰουδαῖοι τοὺς ὄχλους) furono pieni di gelosia (ἐπλήσθησαν ζήλου) e contraddicevano le affermazioni di Paolo bestemmiando (βλασφημοῦντες)» (13, 44-45). La dinamica degli avvenimenti, nell’interpretazione dell’autore di Atti, è molto chiara: il successo della predicazione di Paolo e Barnaba travalica i confini di quell’ambiente giudaico e paragiudaico a cui era inizialmente rivolta. Ad aderirvi, o quantomeno a mostrare grande interesse per l’annuncio di Cristo, non sono soltanto i giudei e i timorati di Dio già ammessi, in qualche misura, a frequentare la sinagoga, bensì «quasi tutta la città», un’iperbole dietro la quale si può riconoscere sì le dimensioni di una massa (ochlos), ma più ancora un pubblico promiscuo, in cui sono saltate tutte le barriere di separazione (e di protezione dell’identità giudaica): oves et boves, direbbero quelli di noi che ancora praticano un po’ di latinetto. No, questo no; questo non si può accettare! Ecco la molla che fa scattare la chiusura dei giudei di Antiochia: lo zelos che li anima – e che anch’io ho tradotto, a rischio di fraintendimento, con “gelosia” come si fa di solito – è piuttosto lo zelo, la passione religiosa di “difendere Dio e i suoi diritti”: in questo caso la sua elezione. Qui è lo scandalo, qui il fomite di una violenza che travolge tutte le buone disposizioni precedenti: ora quegli stessi giudei che avevano ascoltato con tanto interesse l’annuncio di Paolo, contraddicono le sue affermazioni «bestemmiando», cioè negando il carattere messianico della persona di Gesù, la sua resurrezione e la portata soteriologica della fede in Lui.

A questo punto, la situazione precipita: Paolo e Barnaba prendono atto con parresia (παρρησιασάμενοι all’inizio del v. 46, che segue immediatamente, in voluta contiguità, il βλασφημοῦντες alla fine del v. 45) del rifiuto giudaico e proclamano l’intenzione di rivolgersi ai pagani: «ecco, noi ci volgiamo verso le nazioni (ἰδοὺ στρεφόμεθα εἰς τὰ ἔθνη)» (13, 46c). La svolta è compiuta, ma qui c’è un punto di enorme importanza teologica e di lancinante attualità, sul quale dovremo ritornare: pur rivolgendosi “alle nazioni”, il cristianesimo non smette mai, neppure per un istante della storia, di essere una domanda posta a Israele, una questione aperta per i giudei, il momento culminante (e permanente, perché Dio non recede dal patto!) della krisis divina sul popolo eletto. Dobbiamo chiederci se e come la chiesa svolga oggi questa imprescindibile funzione.

Libertà, ma per tutti (non solo per Canfora e i suoi amici).

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Vedo che sulla rete molti deplorano che il professor Luciano Canfora sia stato rinviato a giudizio, su querela di Giorgia Meloni, per averle dato pubblicamente della «neonazista nell’animo». Penso che in una democrazia liberale la facoltà di manifestazione del pensiero dovrebbe essere garantita e tutelata al massimo grado possibile. Da noi, in particolare, il primo comma dell’art. 21 della Costituzione, che recita: «Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione», dovrebbe essere attuato integralmente e universalmente, alla lettera e senza eccezioni, sempre. Di conseguenza, io vorrei che nessuno fosse costretto a difendersi davanti a un giudice per un’opinione che ha espresso. Qualunque cosa abbia detto. In una prospettiva libertaria, l’esistenza stessa di una categoria di reati di opinione deve suscitare molti interrogativi e perplessità: capisco che in certi casi vi sia l’esigenza di temperare il diritto alla libertà di espressione con la necessità di proteggere altri beni giuridicamente apprezzati e garantiti, ma come criterio generale ritengo che il punto di equilibrio dovrebbe essere cercato più verso la tutela della prima che verso quella dei secondi. Quindi, per fare un esempio, mentre non c’è alcun dubbio che la calunnia debba essere considerata un reato da punire severamente, assai più problematica mi appare la configurazione del reato di diffamazione, che forse non dovrebbe neanche esistere, ma che in ogni caso andrebbe a mio parere circoscritto e definito in modo da limitarne di molto l’applicazione, poiché non si può mettere sullo stesso piano la tutela dell’onore – che è sì un bene, ma un bene che si difende moralmente, culturalmente e socialmente, più che giuridicamente – e la difesa della libertà, che è un bene più grande e bisognoso di essere sempre garantito dalla legge. (Analoghe considerazioni mi pare che valgano per altri reati come l’ingiuria o, in altro campo, l’apologia di reato).

Dal mio punto di vista, dunque, l’affermazione di Canfora non è un delitto, ma una sciocchezza. Per quanto mi riguarda, la sanzione che merita gliela infliggo da solo, riducendo proporzionalmente la già moderata stima che ho del personaggio; altri, più interessati e coinvolti nella questione, potranno invece combatterla polemizzando, anche ferocemente, con lui e, se vogliono, indirizzandogli ogni sorta di epiteti, senza che in tutto questo la magistratura debba mettere il becco. Tuttavia, finché nel codice penale la diffamazione c’è, così come l’articolo 594 e l’interpretazione giurisprudenziale che ne viene data la configurano, trovo che non vi sia nulla di scandaloso se una persona che si è sentita diffamata vi faccia ricorso. Io lo eviterei, ma è lecito che un altro lo faccia. Che Canfora sia un “aristocratico della sinistra”, a cui «per lungo / di magnanimi lombi ordine il sangue» del progresso e della civiltà scorre nelle vene; che sia un intellettuale famoso, idoleggiato nei salotti e nelle redazioni; che sia infine un anziano signore di 82 anni (piuttosto malportati, a quanto sembra) è del tutto irrilevante. Come lo è che la querelante sia presidente del consiglio, giacché come l’uno non è al di sopra della legge, così l’altra non è incapacitata ad agire in giudizio per la tutela dei propri interessi. Presumo che sarà assolto e che quindi, alla fine, la Meloni gli avrà fatto un favore, ma questi non sono fatti miei.

Il punto è un altro: la libertà di manifestazione del pensiero – che è la sola cosa che mi stia a cuore – è vera solo se è integrale, cioè se riguarda tutto e viene garantita a tutti. La protesta contro il rinvio a giudizio di Canfora (come, su un altro piano, quella contro il goffo tentativo di silenziare l’indifendibile compitino di Scurati sul 25 aprile) sarebbero condivisibili se fossero espressione di un generale rifiuto di ogni norma liberticida e di ogni azione volta a reprimere le opinioni, anche quelle cattive, cioè quelle che non piacciono alla maggioranza / alle persone illuminate e perbene / a chi detiene il potere. In questi giorni ho visto citare, attribuendola a Canfora, la frase «La storia si studia, non si querela», che forse a molti suonerà bene, ma nel caso specifico non c’entra nulla, perché il professore è stato rinviato a giudizio non per affermazioni di carattere storico, bensì per un apprezzamento, ritenuto diffamatorio, rivolto contro una persona vivente.

La sua bella sentenza “ad effetto”, invece, si adatterebbe perfettamente – per fare un solo esempio – al caso di David Irving, arrestato nel 2005 e condannato a tre anni di reclusione in Austria (in parte effettivamente scontati in carcere) per aver sostenuto tesi negazioniste sullo sterminio degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale. Ora, è proprio in casi come questi che si vede se il discorso sulla libertà di manifestazione del pensiero è fatto sul serio o se è fuffa. Le tesi negazioniste, infatti, sono sicuramente aberranti, vanno demolite sul piano storiografico e combattute culturalmente, possono anche suscitare indignazione morale, ma non possono e non devono essere considerate, di per se stesse, un crimine per il quale si va in galera o si viene comunque puniti da una legge. Per essere ancora più chiari: se fossi un editore non pubblicherei i libri dei negazionisti, se fossi responsabile di una trasmissione televisiva non darei loro un pulpito (ma, se è per questo, neppure mi verrebbe in mente di chiamare uno Scurati a recitare il sermoncino sul 25 aprile!), se fossi in commissione per un concorso a cattedre di storia li boccerei, ma trovo intollerabile che lo stato punisca chi “pensa male”. Quando lo fa, siamo già nel fascismo, anche se si tratta del fascismo dell’antifascismo. «La storia si studia, non si querela», come dice Canfora. Tanto meno si manda in galera chi la studia o la insegna male.

Quelli che ora protestano e si indignano per il rinvio a giudizio di Canfora sono in gran parte gli stessi che volevano la legge Zan, gli implacabili repressori di ogni “discorso d’odio”, quelli che invocano l’intervento della magistratura ogni volta che intravedono l’apologia di fascismo, eccetera eccetera. Quindi no, mi dispiace, ma a questa sedicente “battaglia per la libertà della storia” proprio non ci credo.

Tra proconsoli romani e maghi giudei: a Cipro i primi passi del “cristianesimo critico” di Saulo-Paolo. (Atti degli Apostoli 42)

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Tralasciamo la breve ma impressionante descrizione della morte “in diretta” di Erode davanti al pubblico dei suoi sudditi (Atti 12, 18-23), con cui Luca suggella l’ultimo racconto dedicato a Pietro nel libro degli Atti. Più sobriamente e con maggiore attenzione alle circostanze storico-politiche di quanto non faccia Giuseppe Flavio, che ci dà una versione simile dello stesso episodio, anche Atti si inserisce in una ricca tradizione letteraria de mortibus persecutorum, presente tanto in ambito profano quanto in quello biblico, che non ha mai smesso di intrigare la fantasia dei lettori perché corrisponde ad un’aspirazione profondamente sentita e universalmente condivisa da tutti gli uomini (e purtroppo quasi sempre frustrata dalla storia): quella di vedere i puzzoni fare la fine che meritano.

Suggellato il racconto gerosolimitano con il solito rassicurante ritornello di crescita (12, 24: «La parola di Dio cresceva e si moltiplicava»), l’autore ci riporta ad Antiochia, al seguito di Barnaba e Saulo (ancora nominati in quest’ordine) i quali «avendo compiuto il servizio per Gerusalemme» – cioè la consegna dei proventi della colletta in favore di quella chiesa (11, 29-30), tornarono alla base facendosi accompagnare da Giovanni, soprannominato Marco» (12, 25). Ad Antiochia abbiamo giusto il tempo di dare un’altra rapida occhiata alla condizione dell’ecclesìa cosmopolita che lì si è formata, di cogliere un altro mazzetto di “santi nomi” da aggiungere alla nostra preziosa anagrafe dei primi cristiani, e di prendere atto dell’esistenza, all’interno della comunità, di un’altra categoria “specializzata” oltre ai «profeti» che già abbiamo incontrato a 11, 27: quella dei didaskaloi, cioè dei maestri. «C’erano ad Antiochia, nella chiesa [ivi] esistente, profeti e maestri: Barnaba e Simeone detto Niger e Lucio di Cirene, Manaen che fu allevato con Erode il tetrarca e Saulo.» (13, 1). Subito dopo assistiamo in diretta a quello che è stato chiamato argutamente il “calcio d’inizio” della partita missionaria di Barnaba e Saulo: «Mentre essi rendevano culto (λειτουργούντων) al Signore e digiunavano, lo Spirito Santo disse: “mettete da parte per me Barnaba e Saulo per l’opera (ἔργον) alla quale li ho chiamati» (13, 2). Ancora una volta la preoccupazione di Luca è di sottolineare che l’impresa missionaria di evangelizzazione (rivolta come vedremo anche e soprattutto ai pagani), la cui narrazione occupa tutta la parte centrale del suo libro, non deriva da una decisione umana presa da qualche autorità ecclesiastica, bensì da un ordine diretto dello Spirito Santo. Un comando, si noti bene, che si rende manifesto, nel contesto di un tempo sacro (di culto e di digiuno), ai capi della chiesa (se, come pensano alcuni esegeti, la lista dei cinque personaggi del versetto precedente non è puramente esemplificativa, ma identifica l’organo di governo della comunità antiochena in quel momento), però senza dar loro molte spiegazioni: Barnaba e Saulo dovranno dedicarsi ad un lavoro a cui lo Spirito li ha destinati, e non spetta ai leader della chiesa antiochena sapere e discutere quale sia. Ad essi spetta solo ubbidire, cosa che fanno prontamente, con una modalità che ricorda così da vicino quella attuata per l’istituzione dei diaconi a Gerusalemme (6,6) – cioè l’imposizione delle mani sugli eletti, preceduta dalla preghiera e qui anche dal digiuno – da rendere difficile non pensare che Luca abbia in mente una dimensione rituale e sacramentale del gesto.

«Mandati fuori (ἐκπεμφθέντες) dallo Spirito» (13, 4) e non dagli uomini, dove si dirigono i nostri due eroi (che in verità sarebbero tre, giacché hanno come aiutante quel Giovanni detto Marco che si sono portati dietro da Gerusalemme: cfr. 13, 5b)? A Cipro. E perché proprio là? Qui diremmo che lo Spirito c’entra poco, a prima vista, se ignorassimo che Egli agisce dentro le circostanze: sappiamo infatti che Barnaba è originario di Cipro (4, 36) e appartiene a una famiglia ragguardevole, quindi è estremamente probabile che la scelta della prima meta del viaggio sia stata determinata dal proposito di sfruttare la rete di conoscenze e di appoggi di cui disponeva nell’isola. Si tenga presente che, in questa fase, è ancora lui il leader della coppia (a 13, 2 e 7 viene nominato per primo, e solo dal v. 13, 9 in poi sarà Saulo-Paolo a prendere la scena e a dominarla fino alla fine del libro). Registriamo questa annotazione: nella visione cristiana della vita, le circostanze non sono mai indifferenti, casuali, prive di valore, perché è in esse che il piano di Dio si realizza e, per così dire, si incarna.

In effetti, l’ambiente in cui troviamo all’opera i due missionari cristiani, nel primo episodio che Luca ci racconta, è quello altolocato – a cui verosimilmente può accedere solo chi dispone di qualche entratura – dell’entourage del governatore di Cipro, il proconsole romano Sergio Paolo (su purtroppo cui non abbiamo altre informazioni). Questo magistrato è il primo di una serie di funzionari imperiali romani che incontreremo nel libro degli Atti, quasi sempre presentati in un luce abbastanza favorevole o quantomeno neutrale. Un aspetto, questo, sul quale avremo modo di tornare. Sicuramente positivo è il giudizio su di lui, definito subito «un uomo intelligente (ἀνήρ συνετός)» (13, 7). Che significa qui “un uomo intelligente”? Una persona che capisce certe cose; non un rozzo soldato o un politico che si interessa solo della pratica quotidiana del potere, ma un uomo attento e sensibile alla dimensione religiosa della vita e probabilmente attratto dal giudaismo. Proprio per questo egli ha già al suo fianco, come “specialista del sacro”, cioè in funzione di consigliere e “teologo di corte”, un personaggio che ci viene così presentato: «un certo uomo, mago (μάγον), falso profeta giudeo, di nome Bar-Iesus» (13, 6). È il secondo mago che incontriamo in Atti: il primo, come si ricorderà era stato Simone in Samaria (8, 9). Come in quel caso, si inscena anche qui una competizione tra veri e falsi gestori di un rapporto con la Divinità: là si trattava di una concorrenza per acquisire o mantenere il favore della popolazione, qui si tratta di conquistare la mente e il cuore del “re”. Con Simone il contrasto aveva preso la piega di una controversia “interna”, in seguito alla sua equivoca adesione all’annuncio di Filippo, ed alla fine era rimasto aperto alla possibilità, sia pur remota, di una soluzione positiva. Invece con questo personaggio, che porta il nome tremendamente ironico di Bar-Iesus (figlio di Gesù!) ed è sin dall’inizio etichettato definitivamente come «falso profeta» (quindi non interprete di un giudaismo autentico), è guerra aperta e totale. Assistiamo qui al primo esempio di rottura di un equilibrio preesistente provocata dal cristianesimo critico di Paolo. Il cristianesimo penetra in un mondo che è già pieno di religione e di religioni, assestate in un sistema di convivenza-concorrenza che funziona in un certo modo, e lo “mette in crisi”. Disturba, dà fastidio, innesca situazioni di conflitto.

Sergio Paolo «avendo convocato (προσκαλεσάμενος) Barnaba e Saulo, cercò di ascoltare la parola di Dio (ἐπεζήτησεν ἀκοῦσαι τὸν λόγον τοῦ θεοῦ)» (13, 7b). Egli è dunque un “buon pagano”, della razza del centurione Cornelio saremmo quasi portati a dire: prende lui l’iniziativa di chiedere a Barnaba e Saulo di annunciargli la parola di Dio. «Ma Elimas il mago» – («perché è così che si traduce il suo nome», chiosa il narratore: altro che “figlio di Gesù”!) – «si opponeva a loro, cercando di distogliere il proconsole dalla fede (ζητῶν διαστρέψαι τὸν ἀνθύπατον ἀπὸ τῆς πίστεως» (13, 8). La sua funzione “anticristica” è chiarissima.

A questo punto, con uno di quegli inserimenti repentini e apparentemente incidentali che sono una sua specialità (vedi ad esempio 11, 26b), Luca compie la trasformazione onomastica di Saulo, che è anche il simbolo dell’ormai piena fioritura dell’uomo nuovo, nato sulla strada di Damasco e poi lentamente maturato nel lungo e controverso apprendistato degli anni passati da allora (quanti? di preciso non sappiamo, ma almeno dieci): «Saulo, detto anche Paolo, pieno di Spirito Santo, fissò gli occhi su di lui» (13, 9a). D’ora in avanti, Paolo sarà sempre e solo Paolo, capo (non sempre indiscusso) della missione cristiana nel mondo greco-romano e protagonista indiscusso del libro ad essa dedicato. Perché questo nome romano (che oltretutto non è frequente tra i Romani)? Ovviamente c’è tutta una letteratura critica anche su questo e noi qui non siamo in grado né vogliamo ripercorrerla. Mi limito a far osservare che non può essere in alcun modo casuale che Luca, che è un autore sorvegliatissimo, attento ai minimi particolari, lo introduca proprio a questo punto della narrazione, nel momento preciso in cui Saulo si accinge a incenerire col suo giudizio cristiano l’anticristico Bar-Iesus davanti agli occhi del “buon pagano” Sergio Paolo. Per quanto mi riguarda, dunque, sto volentieri con Origene, il quale sosteneva che Paolo avesse assunto il nome di quel suo primo, illustre convertito «sull’esempio dei re che si fanno chiamare con il nome dei popoli che hanno sconfitto». Il che non ci impedisce di dare ragione anche ad Agostino, che fa notare come paulus in latino richiami l’idea di piccolezza e quindi sia un segno di umiltà.

Comunque sia, il punto essenziale è che la battaglia che Paolo conduce e vince contro Elimas è una battaglia culturale, che consiste nel giudizio chiaro e forte pronunciato su di lui: «O pieno di ogni astuzia e di ogni frode, figlio del diavolo, nemico di ogni giustizia, non smetti di torcere le vie del Signore [che sono] diritte? E ora, ecco la mano del Signore sopra di te: sarai cieco, senza vedere il sole fino al tempo fissato (ἄχρι καιροῦ)» (13, 10-11). Attenzione: non è una maledizione, ma un giudizio. Paolo si limita a dire ad Elimas che cos’è (non “figlio di Gesù”, ma «figlio del diavolo») e che cosa gli accadrà: la sua opposizione al Signore lo condanna alla cecità (paradosso estremo, per un mago, titolare di capacità predittive e conoscitore degli arcani del mondo!). Ad agire ci pensa Dio, rendendolo immediatamente cieco, come era stato Saulo dopo la folgorazione sulla via di Damasco (13, 12). «Allora, alla vista di ciò che era accaduto (ἰδὼν τὸ γεγονὸς), il proconsole credette, impressionato dall’insegnamento del Signore (ἐκπλησσόμενος ἐπὶ τῇ διδαχῇ τοῦ κυρίου)» (13, 12).

Due annotazioni finali: la prima è che l’impressionante azione del Signore che toglie la vista a Elimas qui viene chiamata didaché, cioè “insegnamento” (ma si potrebbe tradurre anche con “dottrina”). Nel cristianesimo non c’è affatto la separazione, purtroppo tanto in voga oggi anche tra molti cristiani, tra parola e fatto, dottrina e morale, insegnamento ed esperienza, e via dicotomizzando. C’è invece una profonda unità: spiegata e preannunciata dal discorso di Paolo, l’azione di Dio su colui che gli resiste è essa stessa insegnamento e dottrina. Vedendo e comprendendo ciò che vede, Sergio Paolo si converte.

La seconda annotazione si riferisce alla sorte del falso profeta Bar-Iesus: se il giudizio cristiano sull’errore e sul peccato è netto e definitivo, non prevede concessioni, compromessi e scappatoie, il destino dell’errante e del peccatore invece resta aperto a una possibilità di ravvedimento e di salvezza. Come l’episodio di Simone Mago era culminato in quel finale enigmatico e aperto che a suo tempo notammo (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com/2023/12/27/pietro-fa-il-suo-lavoro-atti-degli-apostoli-26/ verso la fine dell’articolo), così ora la porta resta socchiusa anche per Elimas. Ci viene detto, infatti, che la sua cecità non è irrimediabile: c’è un kairòs, un tempo forte anche per lui, per arrendersi al Signore.

Ostie e patatine: una mezzaverità accattivante.

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Stamattina mi sono imbattuto in un articolo che Facebook, di sua iniziativa, mi ha fatto vedere (presumo che qualcuno dei miei contatti l’abbia condiviso). Prende spunto dal recente caso dello spot pubblicitario sulle patatine eucaristiche e si trova in una pagina intitolata “Harry Potter e Filosofia”. Non so chi sia l’autore, non sono interessato a Harry Potter (ho molto rispetto e ammirazione per ciò che la Rowling sta facendo attualmente in difesa della libertà, ma non ho mai letto nessuno dei suoi libri) e non avevo intenzione di occuparmi, qui nel blog, della pubblicità delle patatine. Se ora mi permetto di fare un’osservazione non è dunque per polemizzare con chi ha scritto quell’articolo – non voglio e non potrei farlo neanche se volessi, perché per regola evito di interloquire nello spazio pubblico della rete con persone che non conosco almeno di nome e cognome – ma solo perché il pezzo mi ha colpito in quanto è un bell’esempio di mezza verità accattivante. Le mezze verità accattivanti sono infatti la “merce intellettuale” più pericolosa che ci sia e, specialmente oggi, hanno larghissimo corso (specialmente tra i cristiani, verrebbe ahimé da dire). Solo per questo ne parlo, a scopo didattico.

Scrive dunque l’autore dell’articolo, intitolato “Patatine e Cristianesimo”: «La pubblicità della patatina al posto dell’ostia ha un grande merito: ci ricorda che le barriere del sacro e profano, così care alla società neopagana, nel Cristianesimo non esistono. Con un Dio che si lasciava prendere in giro sulla croce, come fare di peggio? “Questo è sacro e questo è profano” (letteralmente fuori dal tempio). La religione divide tra ciò che vale e non vale, sacro e profano. Nel Cristianesimo (che non è una religione) tale distinzione perde il suo senso. Tutto proviene da Cristo e tutto è provocazione a conoscerLo. Impossibile offendere i cristiani…. Anche se si trasformano le chiese in granai, come nella Russia sovietica il Cristo dice a Don Camillo che va benissimo così perché: “il grano è il pane degli uomini… Io sono il pane, dunque quando i contadini prenderanno il frumento e lo ammassano il loro pensiero andrà comunque a Me”. Non è che abbiamo problemi più gravi delle patatine (guerre, clima, genocidi). No, la derisione è grave, ma il problema è che il cristiano è ultimamente impossibile da offendere, può ridere di tutto, anche della morte. Tanti buoni di Harry Potter muoiono ridendo; Fred, Sirius, Silente… Cosa distingue il Cristianesimo dal resto? Il non avere niente di sacro, in quanto il sacro coincide sempre con una nostra idea da difendere.»

Suona tutto molto bene, non è vero? Ed è anche tutto mezzovero. Eppure l’orecchio, se è bene educato ed esercitato, sente che c’è qualcosa nel timbro (o forse proprio nell’altezza) del suono che non va. O piuttosto è una questione di armonia: forse il difetto viene dalla mancanza di un altro suono o di altri suoni che facciano accordo (la verità è sinfonica, come diceva Balthasar). Che Dio si lasci prendere in giro sulla croce, infatti, è vero in un certo senso. Ma ciò non toglie nulla alla tremenda serietà di quella irrisione, e bisogna stare attenti a come se ne parla perché il rischio di cadere nella “evasione estetica e sentimentale” dal dramma della redenzione a prezzo del sangue è sempre lì ad un passo. Il cristianesimo non ha «niente di sacro»? Sì, si può dire anche questo: in un certo senso è vero. «In quanto il sacro coincide sempre con una nostra idea da difendere»? Bah, qui mi pare che ci stiamo allargando troppo: la frase è molto “ad effetto”, di quelle che purtroppo oggi si sentono snocciolare tanto frequentemente nel discorso pubblico cristiano, anche da cattedre episcopali e più in alto ancora … comunque sì, va bene: se uno vuole, può anche esprimersi così.

Purché queste mezzeverità siano accompagnate e custodite da altre, altrettanto mezzovere, che, come sorelle maggiori le accompagnino verso «la verità tutta intera» (Gv 16, 13) a cui solo lo Spirito può farci accedere. Si dovrà dire allora, con altrettanta e forse maggiore verità, che per il cristiano “tutto è sacro” e quindi, se proprio ci piacciono le frasi ad effetto, potremmo affermare che chi ha una fede profonda e matura mangia anche le patatine come fossero ostie. Non lo dico io, ma san Paolo: «Sia che mangiate sia che beviate […] fate tutto per la gloria di Dio» (1 Cor 10, 31), cioè in modo “eucaristico”. Dunque quello spot è irrispettoso anzitutto verso le patatine.

La doverosa integrazione delle mezzeverità nella prospettiva di avvicinamento alla verità tutta intera risulta particolarmente urgente e indispensabile quando le mezzeverità sono accattivanti, cioè “lisciano il pelo” al mondo. Questa misura profilattica andrebbe applicata a gran parte della pastorale, dell’omiletica e, in generale, della comunicazione pubblica attuata oggi in una chiesa spasmodicamente tesa a “piacere”. Rieducarci al giudizio, cioè alla krisis che distingue, vaglia e pondera, senza lasciarci trasportare come fanciulli «da ogni vento di dottrina» (Ef 4, 14), cioè da ogni discorso che “suona bene”: questa è l’urgenza più grande dei cristiani nella presente situazione della Chiesa nel mondo.

Detto questo, posso tranquillamente riportare l’accattivante conclusione dell’incolpevole articolo che ho preso come esempio: «Il Cristianesimo abdica alla categoria del sacro per lasciare spazio a ciò che è caro (in senso affettivo)» (A me questo fa l’effetto dello stridio del gesso sulla lavagna, ma immagino che a molti invece piaccia). «E quel che di più caro c’è nel cristianesimo “è Cristo stesso. Lui stesso e tutto ciò che ci viene da Lui, giacché noi sappiamo che in Lui abita corporalmente tutta la pienezza della Divinità”. (Soloviev, Il racconto dell’anticristo) E con ciò? Si può scherzare su tutto, senza prendersi troppo sul serio… perché si può dare il giusto peso a tutto. Dalla morte fino alla pubblicità sulle patatine. Che in modo bizzarro fanno fare “memoria di Lui”.». Sì, ma.

Il programma indispensabile del prossimo pontificato (chiunque sia il papa).

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Raccomando vivamente agli eventuali visitatori di questo piccolo blog la lettura del fondamentale discorso tenuto dal cardinale Sarah (di cui qualcuno recentemente ha parlato in termini offensivi, definendolo «tanto buono», ma facile da strumentalizzare e perciò reso «amaro») ai vescovi del Camerun, ma idealmente ai vescovi di tutta l’Africa e (ancor più idealmente) di tutto il mondo.

Se ne possono trovare ampi stralci in questo articolo di Sandro Magister, qui: https://www.diakonos.be/nel-prossimo-sinodo-sara-lafrica-a-fare-blocco-contro-i-novatori-e-il-cardinale-sarah-detta-le-linee-guida/.

Magister colloca il discorso nella prospettiva del prossimo sinodo dei vescovi, previsto per ottobre. A me pare che esso meriti di essere considerato anche, e forse soprattutto, in quella del prossimo conclave, pur se dovesse svolgersi tra qualche anno. Il cardinale Sarah non vi figurerà tra i cosiddetti “papabili”, per molte ragioni, non ultima l’età avanzata (potrebbe anche non parteciparvi, se il conclave ci sarà quando lui avrà superato gli 80 anni), ma non importa. La croce che il prossimo successore di Pietro si dovrà mettere sulle spalle (purché eleggano un cattolico!) sarà così pesante e dolorosa che non si può umanamente augurare a nessuno di doverla portare (ma qualcuno dovrà farlo!): in ogni caso, quello tracciato nel suo discorso ai vescovi del Camerun sarà il compito che toccherà all’eletto. Ecco perché lo definisco il programma indispensabile di ogni prossimo pontificato.

Dante, il Paradiso e la Speranza. (Una conversazione lombardo-romagnola)

È in rete il video dell’incontro su Dante che abbiamo fatto in Malatestiana il 25 marzo scorso. È fatto in casa, coi poveri mezzi che avevamo, ma insomma quel che ci siamo detti, Riccardo De Benedetti e io, si riesce a sentire abbastanza bene.

Prego Vanni, Fiorenza, mons. Zanchi e tutti gli altri membri toscani della comitiva dantesca di essere condiscendenti verso l’accento romagnolo e lombardo con cui si è parlato del Poeta. La cadenza gaddiana dell’ottimo Riccardo si raccomanda da sé; per l’inflessione mia, invece, adduco a giustificazione il fatto che la Romagna è terra dantesca quanto la Toscana (il Paradiso, dopotutto, è stato scritto qui da noi) e aggiungo che sul blog già si è fantasticato che forse Dante ha persino dormito a casa mia (qui: https://leonardolugaresi.wordpress.com//?s=dante+ha+dormito+a+casa+mia&search=Vai)

(Via, si scherza!).

Prigionia, liberazione e “scomparsa” di Pietro. (Atti degli Apostoli 41)

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Chiuso tra due annotazioni redazionali dedicate all’attività di Barnaba e Saulo (11, 30 e 12, 24-25) il capitolo 12, letterariamente tra i più brillanti dell’intero libro, mette in scena, per così dire, due “scomparse”: una è quella di Pietro – puramente narrativa, giacché egli non cessa affatto di vivere ma semplicemente scompare dall’orizzonte di Atti, se si eccettua la menzione del suo ruolo all’assemblea di Gerusalemme (15, 7-11) – che viene presentata in modo accentuatamente cristomimetico; l’altra è la morte dell’uccisore dell’apostolo Giacomo e persecutore di Pietro, quel re Erode Agrippa I, che Luca non a caso chiama tout court col solo nome di Erode (come aveva fatto con quell’altro, Erode Antipa, a Lc 23, 6-12). Poiché sappiamo che il regno di Agrippa I durò dal 41 al 44, abbiamo qui un importante “gancio” a cui appendere la nostra incerta cronologia dei fatti sin qui raccontati.

Da Antiochia ritorniamo così, provvisoriamente, a Gerusalemme per assistere ad una vera e propria rappresentazione drammatica, ricca di colpi di scena e di variazioni di tonalità, che spaziano dal tragico al comico. Essa si apre con l’annuncio di un’altra persecuzione contro la comunità gerosolimitana: «verso quel tempo il re Erode mise le mani su alcuni di quelli della chiesa [per] maltrattarli e fece morire di spada Giacomo fratello di Giovanni. Vedendo che la cosa piaceva ai Giudei, aggiunse anche la cattura di Pietro» (Atti 12, 1-3a). Per quanto ne sappiamo, Giacomo è il primo dei Dodici a conformarsi al Signore Gesù nella morte violenta subita per obbedienza alla volontà di Dio; secondo la tradizione tutti gli altri seguiranno la stessa sorte, tranne Giovanni, che sarebbe morto per cause naturali in tardissima età ad Efeso. (A beneficio dei lettori meno esperti, ricordo che sono tre i personaggi delle origini cristiane che portano il nome di Giacomo: oltre al figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, di cui si parla qui e che viene talvolta chiamato Giacomo il Maggiore, c’è l’altro apostolo Giacomo di Alfeo (anche denominato il Minore), delle cui vicende non sappiamo praticamente nulla, e soprattutto c’è Giacomo detto il Giusto, “fratello” cioè parente stretto di Gesù, che incontreremo ancora in Atti (già a partire da 12, 17b) e che fu a capo della comunità di Gerusalemme fino al suo martirio, nel 62). Della decapitazione di Giacomo di Zebedeo, Luca non ci dice nulla (o perché non sa o, più probabilmente, perché in questo momento non gli interessa approfondire l’argomento), se non che essa è l’inizio di una persecuzione che si allarga sino a toccare anche Pietro, benché il modo in cui si esprime a proposito delle vittime, («alcuni di quelli della chiesa») faccia pensare che anche questa volta, come era successo dopo il martirio di Stefano (cfr. 8, 1), la repressione violenta non abbia coinvolto tutti i membri della comunità. Tuttavia, mentre siamo portati a pensare che la persecuzione seguita alla morte di Stefano abbia riguardato selettivamente gli “ellenisti”, senza colpire direttamente gli apostoli e gli altri discepoli, ora abbiamo l’impressione che il clima sia cambiato decisamente in peggio: c’è un’ostilità nei confronti della comunità dei discepoli di Gesù così marcata da indurre Erode Agrippa a sfruttarla politicamente per rendersi gradito alle autorità religiose e al popolo della città.

A questo punto, il racconto della prigionia e della successiva liberazione di Pietro prende una piega che, a partire dall’indicazione della data, «erano i giorni degli azzimi» (12, 3b; cfr Lc 22,1.7), moltiplica gli indizi di somiglianza con la passione di Gesù. Non stiamo qui a rilevarli uno per uno, perché ci porterebbe via troppo tempo: il paziente lettore alcuni li avvertirà da sé e altri potrà divertirsi a cercarli nel capitoli 22-24 del vangelo di Luca. Ci limitiamo a indicarne sinteticamente il senso: la testimonianza cristiana, e quella apostolica in particolare, è conformità a Cristo, cioè assunzione della sua forma martiriale di totale obbedienza alla volontà del Padre, fino all’effusione del sangue. Il testimone non si limita a certificare ciò che ha visto fare da Cristo, ma vive lui stesso, mimeticamente, quel fatto.

Ecco dunque Pietro messo in prigione da Erode e sorvegliato come nemmeno un boss della mafia al 41 bis («quattro picchetti di quattro soldati» ricama, probabilmente esagerando, il narratore a 12, 4). Intanto «una preghiera verso Dio era intensamente fatta dalla Chiesa per lui» (12, 5). La comunità fa il suo dovere (anche se, come vedremo sotto, forse non è tutt’oro quel che luccica), ma Pietro è solo e completamente in balìa di un potere ostile, mentre Dio sembra inerte e silenzioso. Solo all’ultimo momento, «quando Erode era sul punto di farlo comparire (προαγαγεῖν)» (12, 6), davanti al popolo – si intende: per una rappresentazione spettacolare della sua condanna ed esecuzione capitale, di quelle che piacciono tanto ai potenti – Dio interviene operando la più eclatante delle liberazioni miracolose da un carcere che troviamo in Atti (cfr 12, 7-11), descritta da Luca con abbondanza di dettagli prodigiosi e impressionanti. La si confronti con quella narrata a 5, 17-21, ugualmente dovuta all’intervento divino ma trattata in modo assai più sobrio, e soprattutto con quella riguardante Paolo, che troveremo a 16, 24-28, e nella quale l’azione celeste passa attraverso il fenomeno “naturale” di un provvidenziale terremoto. Qui invece tutto converge a imprimere in noi l’idea di una totale impotenza ed inerzia di Pietro, il quale prima è legato come un salame e per giunta addormentato (12, 6b), poi quasi in trance (12, 9), e solo alla fine, «rientrato in sé», è in grado di rendersi conto che Dio l’ha «strappato dalla mano di Erode» (12, 11). A tale dipendenza, fa riscontro l’attivismo di un “angelo tuttofare” che arriva, illumina a giorno la cella, dà uno spatassone nel fianco al prigioniero dormiente (dice proprio così: πατάξας δὲ τὴν πλευρὰν), lo libera dalle catene (12, 7), lo fa alzare, gli ingiunge di vestirsi di tutto punto e di seguirlo (12, 7-8), poi lo conduce fuori dal carcere, superando con irrisoria facilità prima e seconda guardia e portone di ferro, per poi dileguarsi a missione compiuta (12, 10). Un po’ come il messo celeste del canto IX dell’Inferno. Gli studiosi ci insegnano che ci sarebbero moltissime cose da dire su questo episodio, da un lato in rapporto alla tradizione letteraria dei racconti di liberazione prodigiosa da una condizione di prigionia, presente sia in ambito greco (si pensi al mito di Dioniso) sia nel vicino oriente, dall’altro nel rapporto intertestuale con il racconto della liberazione di Israele nell’Esodo, ma noi qui facciamo una lettura elementare e non possiamo approfondire più di tanto. Il senso comunque è chiaro, e si connette strettamente con un Leitmotiv di Atti che abbiamo già individuato e più volte segnalato: è Dio che fa. È Lui che interviene nella storia della sua Chiesa, la guida, la spinge e la strattona, a volte, come quando e dove vuole Lui.

Non per questo, però, gli uomini sono dei burattini nelle sue mani, “giocattolo degli dèi” come diceva Platone, destinati a fare solo da comparse di un gioco deciso dall’Alto. Al contrario, i fedeli hanno un compito e una responsabilità essenziale e non delegabile, che è quella di riconoscere, interpretare correttamente e accettare l’agire divino. È quanto fa Pietro, «rientrato in sé», dopo che l’angelo se n’è andato: «Ora io so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutta l’attesa del popolo dei Giudei» (12, 11). Si noti: è la stessa identica dinamica che era scattata nell’apostolo di fronte a ciò che era accaduto a Cesarea, in casa di Cornelio. Pietro, in Atti, potremmo dire che è colui che guida la comunità ma in quanto “prende atto” della volontà del suo unico Signore.

A proposito della comunità, il seguito dell’episodio riguarda appunto il suo comportamento e qui la narrazione vira, se così possiamo dire, dal dramma alla commedia, con una (auto)ironia che sarebbe davvero un peccato non raccogliere. Dopo averci pensato su (συνιδών), Pietro decide di rifugiarsi «a casa di Maria, la madre di Giovanni soprannominato Marco, dove un buon numero erano riuniti in preghiera» (12, 12). Ecco un altro nome importante da aggiungere alla nostra sparuta anagrafe dei primi cristiani: Giovanni, detto Marco (l’uso del nome latino accanto a quello ebraico lascia supporre l’appartenenza a un ceto sufficientemente aperto anche alla cultura extragiudaica), che incontreremo ancora in Atti come collaboratore missionario di Paolo e di Barnaba (di cui tra l’altro era cugino, stando a Col 4, 6); membro dunque di una famiglia ragguardevole all’interno della comunità, che dispone di una dimora sufficientemente ampia per accogliere un buon numero di fedeli riuniti per la preghiera comune. Una tradizione antichissima e fededegna gli attribuisce, come è noto, la redazione del secondo vangelo. (Incidentalmente, notiamo che se la casa è «di Maria», ciò significa che l’economia basata sulla vendita dei beni immobili e la messa in comune del ricavato di cui a 4, 32-35, all’inizio degli anni quaranta è già una fase archiviata, a conferma del suo carattere eccezionale legato all’attesa di un’imminente parousia del Signore.

Dunque i buoni discepoli di Gerusalemme sono riuniti a casa di Maria per pregare «intensamente» per la liberazione di Pietro: eppure quando Pietro, miracolosamente liberato, si presenta alla porta reagiscono in questo modo: «Avendo bussato alla porta esterna del cortile, si avvicinò una servetta (παιδίσκη) di nome Rode a sentire chi era. Riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non aprì la porta, ma corse invece ad annunciare che c’era Pietro davanti alla porta. [Gli altri] le dissero: “Sei pazza!”. Ma lei insisteva che la cosa stava così. E quelli dicevano: “È il suo angelo”. Pietro, da parte sua, continuava a bussare. Quando aprirono e lo videro, rimasero stupefatti» (12, 13-16). Sembra una scena da commedia o da mimo, ma per chi apprezza l’ironia direi che questo è uno dei passi più deliziosi (e non per questo meno istruttivi) del Nuovo Testamento, e confesso che mi sarebbe piaciuto molto sentirlo commentare dal compianto cardinale Biffi. In mancanza di Biffi, noi intanto registriamo con particolare tenerezza nella nostra rubrica dei primi cristiani il nome di questa poco più che bambina, Rode, una schiavetta tanto meno illustre del suo padrone Giovanni Marco, ma che si guadagna anche lei il suo posto nella storia della chiesa. Se fossi papa, farei di “santa Rode” la patrona della goffaggine che è di tutti noi, membri della Chiesa laici o consacrati, nello svolgimento dei nostri compiti. Ma se per lei che presa dall’entusiasmo si dimentica di aprire la porta a Pietro c’è tenerezza, l’ironia graffiante del sottotesto va invece tutta alla comunità, capi e capetti in primis. Esattamente come gli apostoli di fronte alla resurrezione del Signore, in Lc 24, i fedeli riuniti in preghiera a casa di Maria e Giovanni Marco sono increduli di fronte alla liberazione di Pietro, cioè di fronte al compiersi di quell’evento per cui avevano intensamente pregato! Il fotogramma di loro che danno della scema alla povera Rode, mentre là fuori Pietro continua a bussare (lievemente incazzato, io sospetto), è impagabile. Così tonta è (spesso) la chiesa, così siamo noi cristiani; così eravamo già allora e così siamo oggi: preghiamo per qualcosa ma sotto sotto siamo convinti che Dio non la farà. E se la fa, rischiamo di non accorgercene.

Infine c’è la conclusione, asciutta, pregnante ed enigmatica, per la quale dobbiamo tornare serissimi. «Avendo a quelli fatto segno con la mano di tacere» – d’accordo, è il gesto tipico dell’oratore che si accinge a dire qualcosa di importante, come spieganpo gli esegeti; ma io continuo a credere che fosse anche un po’ contrariato da quell’accoglienza e non avesse voglia di tanti festeggiamenti – «narrò come il Signore l’aveva tratto fuori dal carcere e poi disse: “Riferite queste cose a Giacomo e ai fratelli”. E uscito si diresse verso un altro luogo (καὶ ἐξελθὼν ἐπορεύθη εἰς ἕτερον τόπον)» (12, 17). A noi, che siamo intrisi di “papismo”, sembra impossibile che le dimissioni di Pietro da “vescovo di Gerusalemme” (perché di questo si tratta, in sostanza) vengano sbrigate così: eppure questa, come ho detto, è l’uscita di scena del principe degli apostoli dalla comunità di Gerusalemme e dall’orizzonte narrativo di Atti (con la sola eccezione di 15, 7-11, di cui parleremo a suo tempo).

Distinguiamo i fatti dallo stile in cui sono narrati. I fatti sono questi. 1) L’ultimo servizio che Pietro rende alla chiesa di Gerusalemme è ancora una volta un atto di testimonianza-insegnamento che consiste nel raccontare e spiegare il senso di ciò che gli è accaduto («narrò come il Signore l’avesse tratto fuori dal carcere») aiutando i suoi fratelli a uscire dalla semi-incredulità e poi da uno stupore privo di intelligenza. Qui riporto una nota di Marguerat che mi sembra eccellente: «Una caratteristica fondamentale degli Atti è quella di far seguire a un intervento divino la parola del testimone che opera la lettura teologica dell’avvenimento. Luca sa che Dio si mostra solo nascondendosi […] spetta al testimone dire, sotto forma di confessione di fede, che Dio ha agito». 2) La telegrafica formula di congedo, «Riferite queste cose a Giacomo e ai fratelli», ha tutto il sapore di un’investitura, o piuttosto del riconoscimento di una successione. Notiamo che da essa si evince anche che il Giacomo di cui si parla qui – che non può che essere Giacomo il Giusto, che ritroviamo come capo della comunità di Gerusalemme all’assemblea del capitolo 15 e che, grazie anche al prestigio che gli deriva dalla parentela con Gesù, risulta l’esponente più importante del gruppo che Luca ha già denominato come “quelli della circoncisione” (11, 2), cioè i giudei credenti in Gesù più legati alla stretta osservanza della Legge e meno aperti ai convertiti dal paganesimo – quel Giacomo, non è qui a casa di Maria e di suo figlio. Possiamo ricavarne che quando Pietro, appena liberato, ha pensato al da farsi ha anche valutato di recarsi in una casa dove sa che sono riuniti certi discepoli e non altri? 3) Pietro se ne deve andare da Gerusalemme, la cosa viene data per scontata. Certo per sfuggire alla persecuzione, non solo e non tanto per sé quanto per risparmiare ulteriori noie alla comunità (come si capisce anche da 12, 19); ma forse, tenuto conto di quanto abbiamo appena detto, c’entra anche il fatto che la sua posizione all’interno della chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme è diventata difficile.

L’ultimo elemento ci porta alla considerazione finale sullo stile della narrazione che avevo preannunciato: l’uscita di scena di Pietro è, per chi ama i congedi solenni, quanto di più deludente e sconcertante si possa immaginare: «uscito, se ne andò in un altro luogo». (Sembrano certe comunicazioni della sala stampa vaticana dei nostri giorni, quando annunciano che un vescovo viene rimosso!). Dove sia quell’altro luogo, Luca non lo dice e noi non lo sappiamo. Conosciamo ben poco della successiva vita di Pietro: sappiamo da Paolo della sua presenza ad Antiochia, Eusebio di Cesarea ci dice che viaggiò molto dall’oriente all’occidente, fino ad arrivare a Roma «all’inizio del regno di Claudio», cioè appunto nei primi anni quaranta. Per chi, al contrario, predilige le uscite di scena silenziose, da “servi inutili” che, dopo aver fatto tutto il proprio dovere, quando è ora se ne vanno senza dare nell’occhio, questo dileguarsi di Pietro all’orizzonte filmato da Luca è elegantissimo.

Per fare le cose ci vuole una ragione.

Frammento di una conversazione tra due ciclisti tutti bardati che mi hanno velocemente oltrepassato mentre camminavo questa mattina: «Quest’anno non ho fatto gli auguri a nessuno … gli altri anni li facevo io … quest’anno ho voluto vedere, e non si è mosso nessuno …».

Per fare le cose, anche le più semplici, anche le meno difficili, a noi uomini occorre una ragione. (Don Giussani avrebbe forse precisato: una ragione adeguata). Genus humanum arte et ratione vivit: è la nostra gloria, questa ed anche la nostra croce. L’uomo vive da uomo, e fa cose da uomo, solo se ha una ragione: se la ragione è buona, è possibile (o probabile) che anche la cosa sia buona; se la ragione è cattiva, è quasi certo – salvo che Dio non si metta in mezzo, come talvolta gli piace fare – che anche la cosa sarà cattiva. Ma comunque una ragione è necessaria. Spesso non basta: ci vuole anche un’affezione al motivo che la ragione riconosce per compiere l’azione, specialmente se questa è faticosa, molesta o pericolosa. E siccome l’affezione, vivissima nell’infanzia, si atrofizza col tempo se non viene coltivata, occorre talvolta un’ascesi che l’abbia resa abbastanza forte.

Se no, le cose finisce che non si fanno: neanche le più semplici, neanche le meno difficili. Che “ragione” hanno quasi tutti, oggigiorno, per farsi gli auguri? Per dire plausibilmente Buon Natale o Buona Pasqua, bisogna avere almeno la convinzione che Natale e Pasqua siano qualcosa di effettivo … e Buone Feste, come oggi improbabilmente molti si augurano, che cos’è mai se non un puro flatus vocis? Si può fare, naturalmente, per abitudine o per qualche altro motivo da niente … ma anche no.

Ecco, forse la china su cui scivola e lentamente si decompone la nostra società, si potrebbe etichettare con questa formula: “anche no”.

(Un giorno il ciclista tutto bardato magari si accorgerà di non avere ragioni adeguate neanche per fare tutta quella fatica e starà a casa a spippolare sulla tastiera).