Chiuso tra due annotazioni redazionali dedicate all’attività di Barnaba e Saulo (11, 30 e 12, 24-25) il capitolo 12, letterariamente tra i più brillanti dell’intero libro, mette in scena, per così dire, due “scomparse”: una è quella di Pietro – puramente narrativa, giacché egli non cessa affatto di vivere ma semplicemente scompare dall’orizzonte di Atti, se si eccettua la menzione del suo ruolo all’assemblea di Gerusalemme (15, 7-11) – che viene presentata in modo accentuatamente cristomimetico; l’altra è la morte dell’uccisore dell’apostolo Giacomo e persecutore di Pietro, quel re Erode Agrippa I, che Luca non a caso chiama tout court col solo nome di Erode (come aveva fatto con quell’altro, Erode Antipa, a Lc 23, 6-12). Poiché sappiamo che il regno di Agrippa I durò dal 41 al 44, abbiamo qui un importante “gancio” a cui appendere la nostra incerta cronologia dei fatti sin qui raccontati.
Da Antiochia ritorniamo così, provvisoriamente, a Gerusalemme per assistere ad una vera e propria rappresentazione drammatica, ricca di colpi di scena e di variazioni di tonalità, che spaziano dal tragico al comico. Essa si apre con l’annuncio di un’altra persecuzione contro la comunità gerosolimitana: «verso quel tempo il re Erode mise le mani su alcuni di quelli della chiesa [per] maltrattarli e fece morire di spada Giacomo fratello di Giovanni. Vedendo che la cosa piaceva ai Giudei, aggiunse anche la cattura di Pietro» (Atti 12, 1-3a). Per quanto ne sappiamo, Giacomo è il primo dei Dodici a conformarsi al Signore Gesù nella morte violenta subita per obbedienza alla volontà di Dio; secondo la tradizione tutti gli altri seguiranno la stessa sorte, tranne Giovanni, che sarebbe morto per cause naturali in tardissima età ad Efeso. (A beneficio dei lettori meno esperti, ricordo che sono tre i personaggi delle origini cristiane che portano il nome di Giacomo: oltre al figlio di Zebedeo e fratello di Giovanni, di cui si parla qui e che viene talvolta chiamato Giacomo il Maggiore, c’è l’altro apostolo Giacomo di Alfeo (anche denominato il Minore), delle cui vicende non sappiamo praticamente nulla, e soprattutto c’è Giacomo detto il Giusto, “fratello” cioè parente stretto di Gesù, che incontreremo ancora in Atti (già a partire da 12, 17b) e che fu a capo della comunità di Gerusalemme fino al suo martirio, nel 62). Della decapitazione di Giacomo di Zebedeo, Luca non ci dice nulla (o perché non sa o, più probabilmente, perché in questo momento non gli interessa approfondire l’argomento), se non che essa è l’inizio di una persecuzione che si allarga sino a toccare anche Pietro, benché il modo in cui si esprime a proposito delle vittime, («alcuni di quelli della chiesa») faccia pensare che anche questa volta, come era successo dopo il martirio di Stefano (cfr. 8, 1), la repressione violenta non abbia coinvolto tutti i membri della comunità. Tuttavia, mentre siamo portati a pensare che la persecuzione seguita alla morte di Stefano abbia riguardato selettivamente gli “ellenisti”, senza colpire direttamente gli apostoli e gli altri discepoli, ora abbiamo l’impressione che il clima sia cambiato decisamente in peggio: c’è un’ostilità nei confronti della comunità dei discepoli di Gesù così marcata da indurre Erode Agrippa a sfruttarla politicamente per rendersi gradito alle autorità religiose e al popolo della città.
A questo punto, il racconto della prigionia e della successiva liberazione di Pietro prende una piega che, a partire dall’indicazione della data, «erano i giorni degli azzimi» (12, 3b; cfr Lc 22,1.7), moltiplica gli indizi di somiglianza con la passione di Gesù. Non stiamo qui a rilevarli uno per uno, perché ci porterebbe via troppo tempo: il paziente lettore alcuni li avvertirà da sé e altri potrà divertirsi a cercarli nel capitoli 22-24 del vangelo di Luca. Ci limitiamo a indicarne sinteticamente il senso: la testimonianza cristiana, e quella apostolica in particolare, è conformità a Cristo, cioè assunzione della sua forma martiriale di totale obbedienza alla volontà del Padre, fino all’effusione del sangue. Il testimone non si limita a certificare ciò che ha visto fare da Cristo, ma vive lui stesso, mimeticamente, quel fatto.
Ecco dunque Pietro messo in prigione da Erode e sorvegliato come nemmeno un boss della mafia al 41 bis («quattro picchetti di quattro soldati» ricama, probabilmente esagerando, il narratore a 12, 4). Intanto «una preghiera verso Dio era intensamente fatta dalla Chiesa per lui» (12, 5). La comunità fa il suo dovere (anche se, come vedremo sotto, forse non è tutt’oro quel che luccica), ma Pietro è solo e completamente in balìa di un potere ostile, mentre Dio sembra inerte e silenzioso. Solo all’ultimo momento, «quando Erode era sul punto di farlo comparire (προαγαγεῖν)» (12, 6), davanti al popolo – si intende: per una rappresentazione spettacolare della sua condanna ed esecuzione capitale, di quelle che piacciono tanto ai potenti – Dio interviene operando la più eclatante delle liberazioni miracolose da un carcere che troviamo in Atti (cfr 12, 7-11), descritta da Luca con abbondanza di dettagli prodigiosi e impressionanti. La si confronti con quella narrata a 5, 17-21, ugualmente dovuta all’intervento divino ma trattata in modo assai più sobrio, e soprattutto con quella riguardante Paolo, che troveremo a 16, 24-28, e nella quale l’azione celeste passa attraverso il fenomeno “naturale” di un provvidenziale terremoto. Qui invece tutto converge a imprimere in noi l’idea di una totale impotenza ed inerzia di Pietro, il quale prima è legato come un salame e per giunta addormentato (12, 6b), poi quasi in trance (12, 9), e solo alla fine, «rientrato in sé», è in grado di rendersi conto che Dio l’ha «strappato dalla mano di Erode» (12, 11). A tale dipendenza, fa riscontro l’attivismo di un “angelo tuttofare” che arriva, illumina a giorno la cella, dà uno spatassone nel fianco al prigioniero dormiente (dice proprio così: πατάξας δὲ τὴν πλευρὰν), lo libera dalle catene (12, 7), lo fa alzare, gli ingiunge di vestirsi di tutto punto e di seguirlo (12, 7-8), poi lo conduce fuori dal carcere, superando con irrisoria facilità prima e seconda guardia e portone di ferro, per poi dileguarsi a missione compiuta (12, 10). Un po’ come il messo celeste del canto IX dell’Inferno. Gli studiosi ci insegnano che ci sarebbero moltissime cose da dire su questo episodio, da un lato in rapporto alla tradizione letteraria dei racconti di liberazione prodigiosa da una condizione di prigionia, presente sia in ambito greco (si pensi al mito di Dioniso) sia nel vicino oriente, dall’altro nel rapporto intertestuale con il racconto della liberazione di Israele nell’Esodo, ma noi qui facciamo una lettura elementare e non possiamo approfondire più di tanto. Il senso comunque è chiaro, e si connette strettamente con un Leitmotiv di Atti che abbiamo già individuato e più volte segnalato: è Dio che fa. È Lui che interviene nella storia della sua Chiesa, la guida, la spinge e la strattona, a volte, come quando e dove vuole Lui.
Non per questo, però, gli uomini sono dei burattini nelle sue mani, “giocattolo degli dèi” come diceva Platone, destinati a fare solo da comparse di un gioco deciso dall’Alto. Al contrario, i fedeli hanno un compito e una responsabilità essenziale e non delegabile, che è quella di riconoscere, interpretare correttamente e accettare l’agire divino. È quanto fa Pietro, «rientrato in sé», dopo che l’angelo se n’è andato: «Ora io so veramente che il Signore ha mandato il suo angelo e mi ha strappato dalla mano di Erode e da tutta l’attesa del popolo dei Giudei» (12, 11). Si noti: è la stessa identica dinamica che era scattata nell’apostolo di fronte a ciò che era accaduto a Cesarea, in casa di Cornelio. Pietro, in Atti, potremmo dire che è colui che guida la comunità ma in quanto “prende atto” della volontà del suo unico Signore.
A proposito della comunità, il seguito dell’episodio riguarda appunto il suo comportamento e qui la narrazione vira, se così possiamo dire, dal dramma alla commedia, con una (auto)ironia che sarebbe davvero un peccato non raccogliere. Dopo averci pensato su (συνιδών), Pietro decide di rifugiarsi «a casa di Maria, la madre di Giovanni soprannominato Marco, dove un buon numero erano riuniti in preghiera» (12, 12). Ecco un altro nome importante da aggiungere alla nostra sparuta anagrafe dei primi cristiani: Giovanni, detto Marco (l’uso del nome latino accanto a quello ebraico lascia supporre l’appartenenza a un ceto sufficientemente aperto anche alla cultura extragiudaica), che incontreremo ancora in Atti come collaboratore missionario di Paolo e di Barnaba (di cui tra l’altro era cugino, stando a Col 4, 6); membro dunque di una famiglia ragguardevole all’interno della comunità, che dispone di una dimora sufficientemente ampia per accogliere un buon numero di fedeli riuniti per la preghiera comune. Una tradizione antichissima e fededegna gli attribuisce, come è noto, la redazione del secondo vangelo. (Incidentalmente, notiamo che se la casa è «di Maria», ciò significa che l’economia basata sulla vendita dei beni immobili e la messa in comune del ricavato di cui a 4, 32-35, all’inizio degli anni quaranta è già una fase archiviata, a conferma del suo carattere eccezionale legato all’attesa di un’imminente parousia del Signore.
Dunque i buoni discepoli di Gerusalemme sono riuniti a casa di Maria per pregare «intensamente» per la liberazione di Pietro: eppure quando Pietro, miracolosamente liberato, si presenta alla porta reagiscono in questo modo: «Avendo bussato alla porta esterna del cortile, si avvicinò una servetta (παιδίσκη) di nome Rode a sentire chi era. Riconosciuta la voce di Pietro, per la gioia non aprì la porta, ma corse invece ad annunciare che c’era Pietro davanti alla porta. [Gli altri] le dissero: “Sei pazza!”. Ma lei insisteva che la cosa stava così. E quelli dicevano: “È il suo angelo”. Pietro, da parte sua, continuava a bussare. Quando aprirono e lo videro, rimasero stupefatti» (12, 13-16). Sembra una scena da commedia o da mimo, ma per chi apprezza l’ironia direi che questo è uno dei passi più deliziosi (e non per questo meno istruttivi) del Nuovo Testamento, e confesso che mi sarebbe piaciuto molto sentirlo commentare dal compianto cardinale Biffi. In mancanza di Biffi, noi intanto registriamo con particolare tenerezza nella nostra rubrica dei primi cristiani il nome di questa poco più che bambina, Rode, una schiavetta tanto meno illustre del suo padrone Giovanni Marco, ma che si guadagna anche lei il suo posto nella storia della chiesa. Se fossi papa, farei di “santa Rode” la patrona della goffaggine che è di tutti noi, membri della Chiesa laici o consacrati, nello svolgimento dei nostri compiti. Ma se per lei che presa dall’entusiasmo si dimentica di aprire la porta a Pietro c’è tenerezza, l’ironia graffiante del sottotesto va invece tutta alla comunità, capi e capetti in primis. Esattamente come gli apostoli di fronte alla resurrezione del Signore, in Lc 24, i fedeli riuniti in preghiera a casa di Maria e Giovanni Marco sono increduli di fronte alla liberazione di Pietro, cioè di fronte al compiersi di quell’evento per cui avevano intensamente pregato! Il fotogramma di loro che danno della scema alla povera Rode, mentre là fuori Pietro continua a bussare (lievemente incazzato, io sospetto), è impagabile. Così tonta è (spesso) la chiesa, così siamo noi cristiani; così eravamo già allora e così siamo oggi: preghiamo per qualcosa ma sotto sotto siamo convinti che Dio non la farà. E se la fa, rischiamo di non accorgercene.
Infine c’è la conclusione, asciutta, pregnante ed enigmatica, per la quale dobbiamo tornare serissimi. «Avendo a quelli fatto segno con la mano di tacere» – d’accordo, è il gesto tipico dell’oratore che si accinge a dire qualcosa di importante, come spieganpo gli esegeti; ma io continuo a credere che fosse anche un po’ contrariato da quell’accoglienza e non avesse voglia di tanti festeggiamenti – «narrò come il Signore l’aveva tratto fuori dal carcere e poi disse: “Riferite queste cose a Giacomo e ai fratelli”. E uscito si diresse verso un altro luogo (καὶ ἐξελθὼν ἐπορεύθη εἰς ἕτερον τόπον)» (12, 17). A noi, che siamo intrisi di “papismo”, sembra impossibile che le dimissioni di Pietro da “vescovo di Gerusalemme” (perché di questo si tratta, in sostanza) vengano sbrigate così: eppure questa, come ho detto, è l’uscita di scena del principe degli apostoli dalla comunità di Gerusalemme e dall’orizzonte narrativo di Atti (con la sola eccezione di 15, 7-11, di cui parleremo a suo tempo).
Distinguiamo i fatti dallo stile in cui sono narrati. I fatti sono questi. 1) L’ultimo servizio che Pietro rende alla chiesa di Gerusalemme è ancora una volta un atto di testimonianza-insegnamento che consiste nel raccontare e spiegare il senso di ciò che gli è accaduto («narrò come il Signore l’avesse tratto fuori dal carcere») aiutando i suoi fratelli a uscire dalla semi-incredulità e poi da uno stupore privo di intelligenza. Qui riporto una nota di Marguerat che mi sembra eccellente: «Una caratteristica fondamentale degli Atti è quella di far seguire a un intervento divino la parola del testimone che opera la lettura teologica dell’avvenimento. Luca sa che Dio si mostra solo nascondendosi […] spetta al testimone dire, sotto forma di confessione di fede, che Dio ha agito». 2) La telegrafica formula di congedo, «Riferite queste cose a Giacomo e ai fratelli», ha tutto il sapore di un’investitura, o piuttosto del riconoscimento di una successione. Notiamo che da essa si evince anche che il Giacomo di cui si parla qui – che non può che essere Giacomo il Giusto, che ritroviamo come capo della comunità di Gerusalemme all’assemblea del capitolo 15 e che, grazie anche al prestigio che gli deriva dalla parentela con Gesù, risulta l’esponente più importante del gruppo che Luca ha già denominato come “quelli della circoncisione” (11, 2), cioè i giudei credenti in Gesù più legati alla stretta osservanza della Legge e meno aperti ai convertiti dal paganesimo – quel Giacomo, non è qui a casa di Maria e di suo figlio. Possiamo ricavarne che quando Pietro, appena liberato, ha pensato al da farsi ha anche valutato di recarsi in una casa dove sa che sono riuniti certi discepoli e non altri? 3) Pietro se ne deve andare da Gerusalemme, la cosa viene data per scontata. Certo per sfuggire alla persecuzione, non solo e non tanto per sé quanto per risparmiare ulteriori noie alla comunità (come si capisce anche da 12, 19); ma forse, tenuto conto di quanto abbiamo appena detto, c’entra anche il fatto che la sua posizione all’interno della chiesa giudeo-cristiana di Gerusalemme è diventata difficile.
L’ultimo elemento ci porta alla considerazione finale sullo stile della narrazione che avevo preannunciato: l’uscita di scena di Pietro è, per chi ama i congedi solenni, quanto di più deludente e sconcertante si possa immaginare: «uscito, se ne andò in un altro luogo». (Sembrano certe comunicazioni della sala stampa vaticana dei nostri giorni, quando annunciano che un vescovo viene rimosso!). Dove sia quell’altro luogo, Luca non lo dice e noi non lo sappiamo. Conosciamo ben poco della successiva vita di Pietro: sappiamo da Paolo della sua presenza ad Antiochia, Eusebio di Cesarea ci dice che viaggiò molto dall’oriente all’occidente, fino ad arrivare a Roma «all’inizio del regno di Claudio», cioè appunto nei primi anni quaranta. Per chi, al contrario, predilige le uscite di scena silenziose, da “servi inutili” che, dopo aver fatto tutto il proprio dovere, quando è ora se ne vanno senza dare nell’occhio, questo dileguarsi di Pietro all’orizzonte filmato da Luca è elegantissimo.